mercoledì 7 novembre 2012

il grafene ed il mondo in 2D


molecole, che passione! il grafene ed il mondo in 2D

29 Mar

Archivi | marzo 2018

quando io andavo all’Universitàsi insegnava che il carbonio elementare esisteva in solo tre forme allotropiche: il carbone amorfo, la grafite ed il diamante. Ma quanta strada è stata fatta poi! Prima è venuto fuori il carbonio in fibre (da un polimero precursore, raion o poliacrilonitrile, che viene pirolizzato sotto stiro e poi grafitizzato in forma fibrosa). Oggi è di così largo impiego nella nautica, nell’aeronautica, nella missilistica. Poi sono comparsi i nanotubi di carbonio che stanno rivoluzionando la tecnologia.
Ad essi ho già accennato in un precedente articolo avente proprio quel titolo.





La scoperta di questa supersottile variante della grafite (avvenuta nel 2004) ha valso il premio Nobel 2010 per la fisica ai due professori Andre Geim e Konstantin Novoselov dell’Università di Manchester. Il grafene ha proprietà straordinarie: è completamente trasparente, è il migliore conduttore del calore tra i materiali conosciuti, ha una conduttività elettrica uguale a quella del rame, non è permeabile neppure ad un gas con molecola piccolissima come l’elio. Un metro quadrato di questo materiale teso su due lati sopporta un peso di 4 kg, pur pesando meno di un mg. Lo strato ha lo spessore di un atomoÈ un parente prossimo dei nanotubi di carbonio, che si possono considerare costituiti da grafene arrotolato, e del buckminsterfullerene, detto anche buckyball (sfera poliedrica a 60 atomi di carbonio). La sua struttura a nido d’ape è fatta di tanti esagoni contigui (vedere nella figura allegata). Occorrono 7 milioni di strati per fare lo spessore di 1 mmLa grafite è in realtà costituita da tantissimi strati di grafene sovrapposti (vedere immagine nella  figura). Quando si scrive con una matita gli strati che si trovano sulla punta si sfaldano e sulla carta si trovano anche strati di grafene. In altre parole scrivendo con una matita produciamo anche grafene. Usando un mezzo di imaging sofisticato (qual’è il  microscopio a femtosecondi o microscopio 4D, detto così perché permette di vedere sia nello spazio che nel tempo, usato anche per altri scopi  come descritto in Speciale microscopio 4D coglie il movimento delle strutture del DNA, con possibili applicazioni per Alzheimer) si è potuto osservare che i legami della grafite, sottoposti all’impatto di impulsi laser, sono elastici nella direzione perpendicolare ai piani degli atomi e che tendono a rassomigliare durante la compressione a quelli del grafene. Lo spessore del grafene è quello dell’atomo di carbonio più la nuvola elettronica delocalizzata tipica dei composti aromatici, cioè circa un quindicesimo di nanometro. Per avere informazioni sul microscopio 4D di cui è stato artefice, assieme ai suoi collaboratori, il premio Nobel Ahmed H. Zewail del California Institute of Technology, si veda sul Web l’articolo Microscopia in 4D per le scale atomiche – Le Scienze.htmUn metodo pratico per produrre (in quantitativi di grammi) il grafene è la pirolisi a 1100 gradi centigradi dell’etossido di sodio seguita da un lavaggio con acqua. Qualcuno ha detto che è possibile preparare il grafene dalla grafite con la semplicissima tecnica dello scotch tape (nastro adesivo). Altri parlano della trasformazione della grafite in ossido e successiva riduzione con una sostanza aromatica solforata, il TTF,. Questo metodo è dell’Institute of Physical Chemistry of the Polish Academy of Sciences [Graphene  From any lab!.htm (giugno 2012)]. Altri fanno passare a bassa pressione e ad alta temperatura il gas metano su di un substrato di rame opportunamente pretrattato [pubblicazione del 17.10.2011 da parte dell’Università di California – Santa Barbara]. Ma altri sostengono che in linea generale la produzione del grafene attualmente non è né facile né affidabile e che non si conosce un metodo sicuro e su vasta scala per farlo nascere e crescere in forme idonee per i dispositivi che si vogliono creare. Vedere a questo proposito Graphene Repairs Holes By Knitting Itself Back Together, Say Physicists – Technology Review.htm [THE PHYSICS ARXIV BLOG del 10.07.2012, edito da MIT].

Una delle applicazioni del grafene è una nuova tecnica per il sequenziamento elettronico del DNA basata sulla proprietà che ha questo materiale di assorbirne – sotto l’azione di un campo elettrico – i filamenti nei suoi nanopori, e sulla risposta elettrica diversa delle 4 basi che compongono i filamenti. Ognuna delle basi ha infatti una specifica impronta digitale elettronica. Lo strato grafenico, ricoperto da un altro strato di biossido di titanio (per migliorarne le proprietà elettriche e meccaniche), viene interposto tra due camere contenenti una soluzione elettrolitica. Le molecole di DNA, aggiunte ad una delle due soluzioni, vengono sottoposte ad un campo elettrico passando attraverso un nanoporo allo stesso modo di un filo che passa attraverso la cruna di un ago e trovando una resistenza dovuta agli ioni che entrano contemporaneamente nei pori, e questa resistenza varia a seconda delle basi che lo compongono. Applicando una differenza di potenziale (dell’ordine dei 200 mV) attraverso la membrana di grafene, si osserva una serie di  picchi corrispondenti a cadute di conduttanza, ognuna delle quali determinata da una delle 4 basi (A, C, G e T) presenti nel DNA quando esso passa attraverso lo squarcio.In altre parole, dalla perdita di corrente che attraversa i pori si risale alle basi presenti nella catena di DNA. I pori vengono praticati sullo strato di grafene da un apposito fascio di elettroni [Graphene could revolutionize DNA sequencing – physicsworld_com.htm]. Pori di diametro al di sotto del nanometro molto adatti per il sequenziamento sono stati realizzati all’Università del Texas a Dallas. [Sub-nanometer graphene nanopores for low-cost DNA sequencing  KurzweilAI.htm]. Vedere anche N. Lu, et al., In-situ studies on the shrinkage and expansion of graphene nanopores under electron beam irradiation at temperatures in the range of 400-1200°C, Carbon, 2012 riportato come riferimento nel precedente articolo. Ho posto l’immagine di un nanoporo visto al microscopio TEM tratta da Sub-nanometer graphene nanopores for low-cost DNA sequencing  KurzweilAI.htm. Circa il funzionamento del TEM (microscopio elettronico a trasmissione), il più comune dei microscopi elettronici, per una sua generica conoscenza si rimanda a How electron microscopes work A simple introduction.htm.
– Ci chiediamo a questo punto perché il grafene nanoporoso è il materiale ideale per la determinazione delle sequenze. Ciò è dovuto alla sua estrema sottigliezza. L’azoturo di silicio (che viene anche impiegato per supportare il grafene) può avere pori di uno spessore minimo  da 10 a 100 volte quello della distanza tra due nucleotidi della catena del DNA (pertanto troppo larghi), cosa che, nel caso lo si usasse da solo per lo scopo, renderebbe praticamente impossibile determinare la sequenza del DNA in base alle variazioni registrate nella corrente elettrica.
Uno degli ultimi studi sul sequenziamento del DNA tramite grafene è stato pubblicato nel 2012 su Nature da ricercatori della Harvard University e del MIT [Graphene may help speed up DNA sequencing  Harvard Gazette.htm].
– Molti scienziati sostengono che il grafene ha proprietà elettroniche così straordinarie che un giorno potrebbe competere con il silicio nell’elettronica (Valeria Nicolosi, dell’Università di Oxford e Jonathan Coleman dell’Ireland’s Trinity College di Dublino).
– Un’applicazione del grafene sembra sia l’impiego associato a ioni di manganese (questi ioni sono intrappolati tra due strati) come mezzo di contrasto nella risonanza magnetica a scopo diagnostico (MRI) in luogo del gadolinio trivalente Gd+++ che può presentareproblemi in certi pazienti (inducendo un certo tipo di sclerosi) per cui la FDA americana ne ha limitato l’uso. Anche il costo risultante da questa nuova metodologia sarebbe inferiore a quello che impiega il gadolinio. Si tratta di studi condotti al dipartimento di Ingegneria Biomedica della Stony Brook University da un team di ricercatori facenti capo all’indiano Balaji Sitharaman. La sua pubblicazione fatta su PLoS ONE in data 07.06.2012 aveva il seguente titolo: Physicochemical characterization, and relaxometry studies of micro-graphite oxide, graphene nanoplatelets, and nanoribbons.
– Secondo alcuni ricercatori della Rice University [Anomalous high capacitance in a coaxial single nanowire capacitor   Nature Communications   Nature Publishing Group.htm] un’importante realizzazione per l’immagazzinamento dell’energia è quella dei microcondensatori  (microcapacitors) a grafene che possono essere realizzati mediante un nanocavo coassiale (coaxial nanocable) costituto da un nanocavo di rame rivestito da uno strato di ossido di rame isolante e da un altro strato esterno di pochi atomi di spessore di carbonio grafenico. Vedere in figura COSTRUZIONE DI UN NANOCAVO COASSIALE. Questo microcondensatore ha migliore capacità di accumulo di elettricità rispetto ad altri riportati in precedenza (si tratterebbe di 10 volte maggiore) pur avendo lo spessore di soli 100 nanometri. Ha potenziali applicazioni nello sviluppo di sistemi avanzati per l’accumulo dell’energia e per i componenti di cablaggio dei processori lab-on-a-chip. Dei risultati di questa ricerca Zheng Liu et al. hanno fatto una pubblicazione su Nature Communications lo 06.06.2012 dal titolo Anomalous high capacitance in a coaxial single nanowire capacitor.
– Un’altra applicazione resa possibile dal grafene  è quella dell’anodo delle batterie al litio. Sono stati sperimentati degli anodi fatti di carta ricoperta con strati di grafene volutamente difettati (azione di raggi laser o fotoflash) ed intercalati con materiali che permettono un buon contatto con Li+, usandoli al posto degli anodi di grafite. Il fatto sorprendente è che la batteria risultante ha un tempo di carica molto inferiore a quella tradizionale al litio ed anche una maggiore potenza (gruppo diricerca delRensselaer Polytechnic Institute, la più vecchia Università americana di ricerca tecnologicacondotto dall’esperto di nanomateriali Nikhil Koratka). Lo schema di funzionamentodi una batteria a ioni litio è il seguente. La corrente si forma partendo dal carbonio dell’anodo (elettrodo negativo, quello che cede gli elettroni), ed arrivando al litio cobalto ossido LiCoO2 del catodo (elettrodo positivo, quello che attira gli elettroni). I due elettrodi sono immersi in un solvente organico, ad es. un etere contenente un elettrolita, ad es. LiPF6LiBF4, oppure LiClO4.  Le due semicelle sono separate da un separatore di plastica microperforato che permette agli ioni di passare. Quando la batteria si carica gli ioni Li+ passano dal catodo all’anodo attraverso la soluzione elettrolitica e vanno a depositarsi nella struttura carboniosa; durante la scarica passano dal carbonio dell’anodo all’ossido di litio cobalto del catodo. Vedere in figura SCARICA NELLA BATTERIA A IONI Li.
C’è da ricordare a questo punto, trovandoci nel campo dello  “infinitamente sottile”, che, oltre al grafene sono stati ottenuti con tecniche semplici nanostrati a spessore monoatomico di altri materiali come l’Azoturo di boro (Boron Nitride), il Disolfuro di molibdeno (Molybdenum disulfide) ed il Tellururo di bismuto (Bismuth telluride). Con essi, a causa delle loro particolari proprietà termoelettriche, si ritiene possibile il recupero sotto forma di energia elettrica di parte del calore perduto nelle centrali termiche. Sarebbe anche possibile la produzione di più potenti batterie (supercapacitors) per le auto elettriche.
Un altro materiale promettente per la costruzione di nanofili (in inglese nanowires), strutture quasi unidimensionali aventi sezione di pochi nanometri e lunghezza variabile da centinaia di nanometri fino a centinaia di micrometri, con particolari proprietà elettriche) è quello costituto da molibdeno, zolfo e iodio, indicato con la formula generica Mo6S9-xIx. Vedere l’articolo Oxford Materials – Personal Homepages.htm contenente  una comunicazione di Valeria Nicolosi,con la sua foto riportata anche nella figura allegata. Ho posto pure un’immagine di nanofili visti al microscopio SEM. Per avere un’idea del funzionamento del microscopio SEM si veda l’immagine riportata nella figura allegata la cui didascalia è nell’articolo How electron microscopes work A simple introduction.htm da cui l’immagine deriva.
– Rimanendo sempre nel campo delle sostanze a struttura bidimensionale, ricordo infine la recente sicura scoperta di un parente prossimo del grafene, il silicene (dico sicura perché prima d’ora si erano avute notizie della sua scoperta, ma non c’erano conferme sicure). Il nuovo materiale (su cui si appuntano molte speranze per l’elettronica) è stato ottenuto vaporizzando atomi di silicio su di una superficie di cristalli di argento. La sua struttura è a nido d’ape, come quella del grafene. [B Lalmi et al, App. Phys. Lett, 97, 223109 (2010)]. Il vantaggio del silicene sul grafene risiederebbe nel fatto che esso è più facilmente integrabile con il silicio dell’attuale industria elettronica.
– Ritornando al grafene, esistono molte possibilità di  impiego in svariati campi, perfino nella catalisi. Vedere l’articolo online Carbon Wiley-VCH VHot Topics.htm.
-Uno dei campi che desta maggior attenzione è costituito dai transistor (gli elementi semiconduttori attivi nei circuiti elettronici); anzi, secondo alcuni, il grafene è destinato a diventare il materiale per eccellenza per l’era postsilicio (di cui sono note le limitazioni al di sotto dei 10 nanometri), per le sue proprietà di mobilità elettronica e per il suo spessore a livello di atomo [T. O. Wehling et al, Molecular Doping of Graphene.pdf].
Tutte da studiare sono le proprietà del grafene idrogenato nel campo dei seiconduttori. Per esso si veda  Adding Hydrogen to Graphene.htm.
Zhao et al. segnalano l’azoto come dopante del grafene cresciuto su rame. Con il microscopio a scansione STM si è osservato che atomi di azoto vanno a sostituire quelli di carbonio. Forti modifiche dell’attività elettronica sono stati osservate negli spazi attorno all’atomo dopante. [Liuyan Zhao et al., Visualizing Individual Nitrogen Dopants in Monolayer Graphene, Science, 19.08.2011, Vol. 333, no. 6045, pp. 999-1003].
Il grafene non è paramagnetico (cioè non si magnetizza in presenza di un campo magnetico esterno) ma può essere reso paramagnetico mediante trattamento con fluoro che sostituisce atomi di carbonio, ed un’irradiazione con fasci di ioni che creano lacune, sostituendosi queste ultime ad altri atomi di carbonio. Tuttavia il fenomeno è molto critico, perché se si esagera con il drogaggio la magnetizzazione si distrugge, non dovendosi superare un difetto ogni mille atomi di grafene (difetti troppo vicini annullano il fenomeno) [pubblicazione su Nature Physics  di un gruppo di ricercatori dell’Università di Manchester guidato da Irina Grigorieva in collaborazione con il Nobel Andre Geim. [Graphene Reveals Its Magnetic Personality – ScienceNewsline.htm del gennaio 2012].                           (NOTA 2)   
Altra straordinaria proprietà: se si stira il grafene cambiano le sue proprietà elettroniche ed il materiale si comporta come se fosse in un campo magnetico pur non essendovi nelle vicinanze alcun magnete. In questo caso i ricercatori sono stati abili nell’’usare il microscopio tunnelling a scansione (SMT) per il controllo della forma della membrana di grafene e per la determinazione delle conseguenti proprietà elettroniche. [New Method Offers Control of Strain on Graphene Membranes   Arkansas Newswire   University of Arkansas.htm].
ll fenomeno è stato osservato anche con il microscopio a forza atomica AFM. Per il funzionamento dell’STM, come pure per quello dell’ AFM vedere 7_6 Scanning Probe Microscopy (STM – AFM).htm How electron microscopes work A simple introduction. Vedere anche le due immagini della figura allegata. 
Considerando il suo presumibile basso costo (inferiore a quello del silicio, se si realizza un metodo pratico di produzione del grafene), moduli fotovoltaici pieghevoli ed avvolgibili da poter distendere al sole per la ricarica dei telefonini potrebbero essere confezionati dal grafene (studi dell’ISOF (Istituto per la sintesi organica e la fotoreattività del CNR). 
Presso l’Istituto nanoscienze dello stesso Cnr è stata realizzata una ragnatela di grafene in grado di rilevare, catturandola, una singola molecola magnetica (lavoro pubblicato sulla rivista Nano Letter [CNR NANO – Istituto Nanoscienze Consiglio Nazionale delle Ricerche.htm].
Altre applicazioni possibili: sensori di gasschermi LCD (liquid crystal displays, cistalli liquidi). 
Un’ultima recentissima notizia sul grafene: può essere usato nelle celle a combustibile se associato a nanoparticelle di cobalto quale elettrodo al posto del platino, presentando vantaggi su di esso oltre che per il costo anche per la maggiore  facilità di riduzione dll’ossigeno al catodo. La ricerca è del Sun Lab alla Brown UniversityPROVIDENCE, Rhode Island, pubblicazione su Angewandte Chemie International Edition [da Can cobalt nanoparticles replace platinum  Brown University News and Events.htm].
Per quanto riguarda il funzionamento di una cella a combustibile si può anche consultare il mio articolo le celle a combustibile.
Tenuto conto che il grafene è trasparente alla luce, che è un ottimo conduttore e che è dotato di ottima stabilità chimica, secondo gli esperti i suoi primi impieghi saranno nel campo dei touch screen e delle celle fotovoltaiche.
Potrebbe avere interesse pratico non solo il grafene, ma anche l’ossido di grafene. I foglietti di questo materiale hanno infatti la singolare proprietà di trattenere i gas disciolti nell’acqua e di lasciar passare l’acqua stessa allo stato di vapore, ma non i gas. Il fenomeno, del tutto imprevisto, è stato messo in evidenza da ricercatori dell’Università di Manchester (Rahul Nahir et al., rivista Science, anno 2011). Sarebbe la particolare affinità dell’acqua per l’ossido di grafene (che contiene anche gruppi OH) a dar luogo a strati di acqua intrappolati in strati di ossido ed impedire il passaggio dei gas. Anche l’alcool etilico non passa, perché evidentemente (ma stranamente) non entra negli strati di acqua interposti (altrimenti evaporerebbe assieme all’acqua). Quindi sarebbe possibile (ma non so quanto sia conveniente) concentrare in questo modo i liquidi alcoolici, invece di distillarli. Graphene Can Increase Alcohol Potency  TPM Idea Lab.htm. (NOTA 1)                .
Simile al grafene è il grafino (graphine) che è pur esso bidimensionale, ricco di doppi e tripli legami, ma non sempre è a struttura esagonale. I fisici pensano che possa avere interessanti proprietà elettroniche.Ho posto in figura uno dei possibili grafini: gli isomeri sono infatti tanti, con differenti posizioni dei legami insaturi. Uno solo sembra sia stato sintetizzato, ma altri potrebbero venir fuori dalla ricerca. Secondo il chimico teorico Andreas Görling dell’Università di Erlangen-Nuremberg [Graphyne Could Be Better Than Graphene – ScienceNOW.htm  – D. Malko et al., Phys. Rev. Lett. 24.02.2012] alcune strutture del grafino permetterebbero nel movimento degli elettroni un’alta velocità ed una direzionalità specifica, cose che non si riscontrano nel grafene. E ciò potrebbe costituire un vantaggio per certe applicazioni.- 
Abbiamo parlato di grafite, grafene e grafino. Non mancherò di aggiungere che c’è ancora un’altra forma di carbonio, il carbonio M, duro quasi come il diamante anche se meno simmetrico, che è stata ottenuta all’Università di Yale dalla grafite a 200.000 atmosfere ed a temperatura ambiente. Per le sue caratteristiche di durezza e per la maggiore facilità di sintesi si ritiene che troverà impiego in luogo del diamante sintetico (che si usa soprattutto per la lavorazione e la rifinitura dei dischi diamantati, ma che richiede per la sintesi 1500 gradi centigradi e si può ottenere economicamente solo in dimensioni piccolissime) [Cold comfort  Graphite under pressure – Ezine – spectroscopyNOW.com.htm].   SEGNALA UN ERRORE OD  UN’INESATTEZZA.                                                                                         

(vedere anche i miei  successivi articoli i materiali del futuro e  le batterie

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NOTA  1 Marzo 2018 – 
Recenti ricerche hanno dimostrato che l’ossido di grafene applicato sui capelli ingrigiti, dopo una decina di minuti all’aria, li trasforma in una chioma di color nero. Si presume che in un giorno non lontano il prodotto possa sostituire le molecole ora in uso che presentano spesso problemi per la salute. Enough with the toxic hair dyes. We could use graphene instead _ Science.

NOTA 2 – novembre 2019 – Non sembra dovuto ad impurezze il ferromagnetismo del grafene (provvisoriamente denominato U-carbon) a temperature maggiori di 125 gradi centigradi. (Il ferromagnetsmo è l’allineamento ordinato dei dipoli magnetici che resta per lungo tempo anche dopo allontanamento del campo magnetico esterno, a differenza del paramagnetismo).  The next graphene_ Shiny and magnetic, a new form of pure carbon dazzles with potential _ Science _ AAAS.htm   

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martedì 9 ottobre 2012

i nostri antenati - seconda parte



i nostri antenati – seconda parte

2

(segue da i nostri antenati –primte)

Per la storia del genere Homo in Europa è necessario considerare un’altra specie che ha lasciato molte tracce soprattutto nel nord della Spagna, e precisamente ad Atapuerca, un bel posto con un fiume accanto dove questi nostri primitivi antenati potevano cacciare. Quest’uomo primitivo (Homo heidelbergensis), il cui nome deriva dai ritrovamenti umani fossili rinvenuti per la prima volta  nel 1907 presso Heidelberg, nel Baden-Württemberg (Germania), sulle rive del fiume Neckar, pur essendo vissuto da 600.000 a 100.000 anni fa era già in qualche modo sapiens perché la sua mente aveva già raggiunto un elevato livello di intelligenza.Una tibia di un altro esemplare di questo Homo vissuto 500.000 anni fa fu trovata a Boxgrone in Inghilterra nel West Sussex nel 1993. H. heidelbergensis cacciava anche animali di grossa taglia come i cervi giganti (Megaloceros) con attrezzi litici e di legno avanzati, ad esempio lance, e rappresenta ll più evidente legame dal punto di vista evolutivo tra l’Homo ergaster e l’Homo sapiens. Infatti, oltre ad avere una cultura di tipo acheuliano, questo Homo aveva caratteri morfologici ante-neanderthaliani sia per quanto riguarda la morfologia dello scheletro che la morfologia della testa.

Una sorpresa fu quella del cranio, risalente a circa 400.000 anni fa, di un Heidelbergensis con alcune caratteristiche arcaiche tipiche deli Ergaster africani e degli Erectus asiatici scoperto a Ceprano nel Lazio meridionale [studi di Aurelien Mounier, dell’Université de la Méditerranée, et al., rivista PLoSONEManzi et al., Proceedings of National Academy of Sciences del 2001]
 – Dobbiamo ora tornare ad Atapuerca perché anche qui si ebbe (nel 1994) un’altra sorpresa: fu rinvenuto in una caverna il cranio parziale di un giovane della presunta età di 10 anni risalente a 780.000 anni fa (quindi antecedente all’H. heidelbergensis) che presentava caratteristiche comuni con l’Homo ergaster, ma anche differenze significative, per cui è stato proposto di dargli il nome di una specie nuova (l’Homo antecessor, dal latino“antecedere” = “andare innanzi”, per cui si potrebbe intendere come “il pioniere”, in inglese “pioneer man”). La nomenclatura (proposta dal professor Luis Arsuaga) non è stata ancora da tutti accettata, perché desta perplessità il fatto che si dà il nome ad una specie basandosi sul teschio di un infante senza tener conto del fatto che certe caratteristiche si sviluppano con l’età adulta. Questi Homo hanno lasciato anche oggetti di pietra scheggiata. Dovevano essere individui più robusti degli Heidelbergensis. Nel 1994 e 1995 nel sito di Atapuerca furono rinvenuti circa 80 frammenti appartenenti a sei individui di questa specie. Dai segni di incisioni riportati sulle ossa è stato ipotizzato che H. antecessor possa aver praticato il cannibalismo. Nel 2007 in un’altra caverna di Atapuerca si trovò un dente, un premolare che si suppone sia appartenuto ad un individuo giovane di 20-25 anni di un genere Homo ancora più antico dell’Antecessor, risalente, per lo strato in cui è stato trovato, ad 1,2 milioni di anni fa. Nel 2008 fu ritrovata una mandibola, con accanto scaglie di pietra ed ossa animali lavorate. Quello del dente sarebbe stato il più antico reperto europeo di una specie di Homo se non fosse stato superato come età dall’uomo del Gargano (Apricena, cava di Pirro nord) che recentemente è stato datato ad 1 milione e 700.000 anni. E’ stato chiamato Homo GarganicusStampa la Pagina – Homo Garganicus, Scoperto L’uomo Più Antico D’europa.htm.
– In Asia quello di Dmanisi è ancora più antico, risalendo infatti ad 1,8 milioni di anni fa. La scoperta di questi reperti con datazione più antica dell’Antecessor farebbe quindi cadere l’ipotesi della teoria Out-of-Africa 1 per la quale la prima popolazione africana che giunse in Europa fu quella degli Antecessor ed in Asia quella degli Erectus (mentre in Africa si sviluppavano gli Ergaster). 
– Parliamo ora di un altro antico emigrante dall’Africa, anche se nessuno degli attuali europei può averlo avuto come antenato. Secondo alcuni studiosi l’uomo di Flores (Homo floresiensis, Indonesia), risalente a 18.000 anni fa (NOTA 1) , dal cervello piccolo, di soli 410 centimetri cubici, ma intelligente) deriverebbe da un antenato di piccola statura che lasciò l’Africa 2 milioni di anni fa, raggiunse Flores un milione di anni fa e si è estinto solo 17.000 anni fa.    Trasmissione di Superquark di Piero Angelo del 22.07.2010.  Infatti nell’isola di Flores (precisamente a Mata Menge) sono stati trovati oggetti litici di un milione di anni fa e si presume che chi li ha costruiti doveva essere un antenato dell’uomo di Flores (i cui resti furono trovati a 50 km dal precedente sito, a Liang Bua [Brumm, A. et al., (2010), Hominins on Flores, Indonesia, by one million years ago, Nature, 464 (7289), 748–752].
L’intelligenza di questo minuscolo Homo è dimostrata oltre che dalla presenza di strumenti litici avanzati adatti alla caccia ed alla macellazione anche dalla TAC effettuata su di un cranio che ha dimostrato la presenza di un’estesa area 10 di Brodmann, necessaria per avere attività cognitive complesse. Tuttavia il mistero di questi “hobbit” tuttora permane. A cosa fu dovuta la loro scomparsa? Fu dovuta forse al contatto con l’Homo sapiens? Forse non lo sapremo mai. (Ho accennato all’uomo di Flores nel mio articolo i misteri dell’evoluzione).
– Se ci spingiamo ancora oltre nel tempo fino ad arrivare a 3,3 milioni di anni fa, nessun reperto troviamo in Europa di Homo o di suoi antenati. Dobbiamo spostarci in Etiopia per trovare degli esseri dai tratti ancora scimmieschi, ma anche umani (gli Australopitechi), come ha dimostrato la scoperta dello scheletro quasi completo di un individuo di genere femminile denominato Lucy (Australopithecus afarensis), datato in 3,18 milioni di anni fa, avvenuta ad Hadar in Etiopia più di tre decenni fa per opera del gruppo di antropologi capeggiati da Donald Johanson, che oggi è capo dello Institute of Human Origins nella Università Statale di Arizona. (La storia di Lucy è già abbastanza nota anche al grande pubblico soprattutto per il libro Lucy, the Beginnings of Mankind di Johanson Maitland).
Secondo la nuova terminologia Lucy è un Ominino (Hominin in inglese), cioè appartiene alla sottofamiglia di nostri antenati che sono più vicini agli scimpanzé ed ai gorilla e più lontani dagli orangutan. Oggi si intendono per Ominidi le grandi scimmie o viventi od estinte, comprendendo in essi gli esseri che vanno dagli umani moderni fino all’urangutan, mentre si intendono per Ominini solo i membri del genere Homo, gli Australopitechi ed alcuni altri generi vicini a quest’ultimi.
– Nel 2011 è stata annunciata la scoperta non lontano da Hadar da parte di ricercatori facenti capo allo studioso etiopico Zeresenay Alemseged dei resti di un individuo immaturo, una femmina di soli 3 anni, indicata col nome di Dikika baby, nell’ambito del progetto Dikika. La sua datazione risale a 3,2 milioni di anni fa. Oltre al cranio ritrovato praticamente completo si sono potuti reperire un femore ed una tibia le cui forme dimostrano che questo essere era in grado di camminare eretto. Certe caratteristiche (ad esempio l’osso curvo della mano) trovate in questo soggetto giovanissimo sono molto importante perché riconfermano che l’A. afarensis era una specie evoluta per il fatto che detta curvatura era geneticamente determinata e non formata nell’individuo adulto a causa dell’esercizio continuativo di un’attività. Sarebbe ancora dello stesso genere di Lucy. Lucy’s Baby — World’s Oldest Child — Found by Fossil Hunters.htm [James Owen for National Geographic News 20.09.2006]
Recentemente (nel 2008) un’altra specie di Australopitechi, denominata Sediba, è stata rinvenuta in Sudafrica nella riserva di Malapa non lontana da Johannesburg.  (Lee BergerUniversità di Witwatersrand, rivista Science). Si tratta di un giovane di 12-13 anni e di una donna. I reperti risalgono a 1,98 milioni di anni fa. La costituzione della mano farebbe pensare a degli esseri capaci di afferrare strumenti. Non si esclude che questo Australopiteco sia più vicino a noi rispetto all’Australopithecus afarensis. Anzi, per la costituzione dei lobi frontali e del giro frontale inferiore, per i denti piccoli, per la mano abile (anche se le bracce sono ancora lunghe, come nelle scimmie), per l’astragalo avanzato (anche se il calcagno è primitivo), per le gambe lunghe, per il canale del parto (nella donna adulta) grande, c’è il sospetto che possa essere addirittura uno dei primi Homo. In tal caso la culla dell’umanità non sarebbe più l’Africa Orientale, ma il Sudafrica. Ma potrebbe anche essere una specie originatasi nell’A. O. e poi spostatasi. Per Berger è probabile che A.sediba derivi da A. africanus (i cui reperti furono trovati in quattro siti sudafricani tra il 1924 ed il 1992, vissuto tra 3 e 2 milioni di anni fa, con un cranio più umanoide dell’Afarensis   e sia l’antenato dell’Erectus, mentre A. afarensis (a cui appartiene Lucy) sarebbe l’antenato di H. abilis, ma questa sarebbe una linea collaterale finita nel nulla, cioè non ancestrale dell’H.sapiens. Tuttavia gli elementi che fanno pensare al Sediba progenitore dell’Homo non devono far dimenticare i prevalenti elementi scimmieschi che lo portavano ad arrampicarsi sugli alberi dove si alimentava di foglie, frutti e cortecce d’alberi, né più né meno come gli scimpanzé dei nostri giorni e paragonabili alle giraffe (in base a studi sugli smalti dentari che si sviluppano durante l’infanzia, da parte di paleoantrapologi dell’Università dell’Arkansas, Fayetteville e dell’Università del Colorado, sfruttando il principio che le piante vissute all’ombra, quali le palme ed i fichi, posseggono un rapporto C13/C12 inferiore a quello dei vegetali vissuti al sole, come le graminacee). Questa alimentazione sarebbe stata vicina a quella dell’Ardipithecus ramidusun ominino più primitivo vissuto in Etiopia 4,4 milioni di anni fa  pure esaminato con il metodo C13/C12. Early Human Ate Like a Giraffe – ScienceNOW (Ann Gibbons 27.06.2012).
Di Australopitechi ne è stato trovato anche un altro, nel 1998, in Sudafrica. È lo scheletro completo di 3 milioni di anni fa, rinvenuto dal professore Phillip Tobias (dell’Università di  Witwatersrand) Sterkfontein a nord di Johannesburg. Èra un essere scimmiesco alto 1,22 metri, era bipede, ma anche abile ad arrampicarsi sugli alberi come dimostra l’alluce divergente. Cadde in un pozzo naturale entro una roccia calcarea e fu poi seppellito dai detriti  della stessa roccia ammucchiatisi nei successivi millenni.
Da quale Australopiteco derivò l’H. sapiens? Forse non lo sapremo mai. Ma perché dagli esseri scimmieschi come gli australopitechi si evolse l’uomo? Tra le tante cause possibili ce ne è una messa in evidenza da ricercatori dell’Università di California, San Diego School of Medicine [pubblicazione online (2011) su The Proceedings of the National Academy of Sciences]: la perdita della capacità di produrre una molecola, un particolare acido sialico, l’acido N-glicolilneuraminico o Neu5Gc (vedere formula nella figura allegata ANTENATI VICINI E LONTANI), che le cellule degli organismi antecedenti all’Homo usavano per l’individuazione di agenti patogeni. È tuttora presente nelle scimmieSarebbe stata una mutazione del corrispondente gene a provocare la scomparsa di Neu5Gc. Un’altra molecola fu prodotta in sostituzione, e precisamente il suo precursore Neu5Ac. Tutto ciò avvenne 2-3 milioni di anni fa proprio quando comparvero l’Homo erectus e l’Homo ergaster. La perdita di Neu5Gc, che il sistema immunitario cominciò a considerare estranea, potrebbe, assieme a tante altre cause, aver contribuito a dirigere l’evoluzione verso l’emergenza del genere Homo. Sexual Selection by Sugar Molecule Helped Determine Human Origins.htm. 
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– Oltre alle date suaccennate non abbiamo reperti tali da stabilire quando è avvenuta la divergenza tra antenato di Homo ed antenato scimpanzé, ma, secondo le più recenti vedute in base all’orologio molecolare fondato sulle mutazioni tra una generazione è l’altra successiva sia nell’uomo che nello scimpanzé, tale divergenza si è verificata da 7 ad 8 fino a 13 milioni di anni fa. Il lasso di tempo così ampio è dovuto al fatto che non siamo certi della costanza delle mutazioni per generazione nelle due linee uomo/scimpanzé . Generation Gaps Suggest Ancient Human-Ape Split – ScienceNOW.htm (agosto 2012).
– Dopo aver fatto una scorsa molto lontano nel tempo veniamo ora agli antenati più vicini a noi. Le conchiglie dipinte dovevano essere un simbolo di grande importanza per le popolazioni umane primitive se una di esse colorata con pigmento arancione è stata trovata dall’archeologo João Zilhão dell’Università di Bristol (Gran Bretagna) in una caverna abitata da uomini Neanderthal di 50.000 anni fa ad una sessantina di chilometri da AvionesCueva Anton, in Spagna. La conchiglia era coloratissima ed il pigmento all’analisi chimica è risultato costituito da una miscela dei minerali ematite e goethite. Altri reperti similari colorati con pigmenti minerali di varia natura ed usati come pendagli ornamentali erano stati trovati in un’altra caverna della zona, unitamente ad un osso di cavallo appuntito con del pigmento sulla punta, insieme ad ammassi di pigmenti gialli e rossi. Secondo l’archeologo, la scoperta di questi reperti risalenti a circa 10.000 anni prima dell’arrivo in Europa dell’uomo sapiens moderno induce a pensare che i Neanderthal fossero tutt’altro che arretrati, anzi si affaccia l’ipotesi che siano stati i moderni a copiare dai Neanderthal e non viceversa. La pubblicazione di Zilhão ed altri è su Proceedings of the National Academy of Sciences. Altre attribuzioni di graffiti fatti con il carbone nelle caverne preistoriche hanno dato luogo a retrodatazioni per cui molti paleontologi pensano che i disegni siano dei Neanderthal e non degli uomini moderni. Questo è stato possibile utilizzando un altro metodo di analisi (diverso dal C14) chiamato della serie dell’uranio (uranium-series, U-series) che analizza la calcite ricoprente i manufatti e che contiene piccole quantità di uranio 238. Quest’ultimo nel tempo degrada allo ancora radioattivo Torio 230. Dal rapporto tra I due si deduce l’età minima (la calcite è successiva al dipinto perché lo ricopre
Secondo Mellars e French [SCIENCE, Volume 333, Issue 6042, 29.07.2011, 623] la scomparsa dei Neanderthal fu principalmente provocata dal numero esiguo della loro popolazione essendo essi  stati valutati (in base al numero dei siti ed ad altri parametri) approssimativamente 10 volte inferiori di numero rispetto ai nuovi venuti.
– Da tutto quello che abbiamo detto sopra sembrerebbe fuori discussione che le due specie Homo Neanderthal ed Homo sapiens fossero le uniche coesistenti in Eurasia intorno a 40.000 anni fa. Invece così non è. La smentita arriva dalla scoperta di un molare e di una falange di un dito entrambi umani nella caverna Denisova sui monti Altai nella Siberia meridionale. Dal DNA  mitocondriale (due studi del Max-Planck-Institute für evolutionåre Anthropologie di Lipsia diretto dallo scienziato Svante Pääbo) pubblicati nel marzo e nel dicembre 2010 sulla rivista Naturerisulta trattarsi di una specie nuova, che provvisoriamente è stata chiamata col nome di uomo di Denisova. Questa tecnica che analizza il DNA mitocondriale si era già prestata bene nella differenziazione tra H. sapiens ed H. Neanderthal su due reperti provenienti da Vindija e Feldhofer tramite confronto con l’uomo moderno di 400 coppie di basi dell’ansa D mitocondriale (Krings ed al., anno 2000). Si potette allora concludere in modo inequivocabile che il mtDNA dei Neanderthal cadeva con le sue sequenze nucleotidiche al di fuori delle variazioni esistenti nell’uomo attuale e che la divergenza tra le due specie dovette verificarsi molto addietro nel tempo, all’incirca tra 800.000 e 500.000 anni fa.
Tornando all’uomo di Denisova, lo studio del DNA nucleare della falange ha fornito un’altra sorpresa: c’è un pezzo di DNA in comune con noialtri, inesistente nelle popolazioni attuali africane, segno che gli antenati dei Denisova si incrociarono in un lontano passato con i nostri diretti antenati in qualche remoto angolo toccato dalle loro peregrinazioni, forse nel Medio Oriente. La datazione dei Denisova è tra 48.000 e 30.000 anni fa. Il problema dell’incrocio tra le razze si è presentato anche per le due specie più importanti che convissero in Europa tra 40.000 e 30.000 anni fa: i Neanderthal, provenienti dall’Africa, vissero infatti per 200.000 anni in Europa raccogliendo cibo dalle piante e cacciando animali fin quando vi fu l’arrivo in Europa, pure dall’Africa, dei sapiens sapiens circa 40.000 anni fa. Ciò portò alla scomparsa dei Neanderthal in soli 10.000 anni. Molti studi avevano dimostrato in base al DNA mitocondriale che non vi erano pezzi di DNA del Neanderthal nell’uomo attuale. Ma l’esame del DNA nucleare (caposcuola Svante Pääbo di Lipsia e pubblicazione di Green et al. 2010) ha dato un altro responso: nel DNA dei popoli attuali non africani, tra cui anche noi Europei attuali, vi è l’1-4% del DNA dei Neanderthal. Siccome però esistono le stesse correlazioni (cioè sequenze comuni) tra i Neanderthal e gli attuali sapiens sapiens abitanti in Francia, in Cina od in Papuasia/Nuova Guinea, l’incrocio sarebbe avvenuto molto prima, cioè prima che la popolazione euroasiatica si suddividesse tra Europa, Asia ed Indonesia, cosa che avvenne approssimativamente 100.000 anni fa (resti di Neanderthal ed uomo moderno risalenti a questa epoca sono stati rinvenuti in Medio Oriente). La sorpresa che il DNA dell’uomo di Neanderthal  conteneva delle sequenze presenti nelle popolazioni europee ed asiatiche di oggi è descritta nel lavoro pubblicato il 7 maggio 2010 sulla rivista Science da un folto gruppo internazionale di ricercatori coordinati da Svante Pääbo (Lipsia,GermaniaSigns of Neanderthals Mating With Humans – NYTimes_com.htm. Il dubbio sull’incrocio (Neanderthal hybridisation nei testi inglesi) continua però a sussistere, perché esiste anche un’altra interpretazione della comunanza genetica (che sarebbe però tutta da dimostrare): dall’Africa partirono in tempi diversi due gruppi migratori geograficamente separati e dal punto di vista genetico molto diversi tra di loro, ma che tuttavia avevano in comune dei piccoli tratti di DNA che avevano ereditato da un comune antenato. I due gruppi migranti erano i Neanderthal e gli antenati dell’uomo europeo-asiatico-paupasico/nuovaguineano moderno.
Oltre a  Svante Pääbo, sull’argomento incrocio Neanderthal/Homo sapiens sapiens ha lavorato e sta lavorando il genetista italiano Guido Barbujani dell’Università di Ferrara,che nella trasmissione di Radio 3 Scienze dello 08.09.2011 ha dichiarato di avere in progetto l’esame del DNA nucleare di un neanderthaliano pugliese (quello di Grotta Paglicci di Rignano Garganico) assieme al DNA nucleare di altri abitanti della caverna, morfologicamente uguali a noialtri (vi sono stati rinvenuti gli scheletri di uomini sapiens moderni, apparentemente dei Cro-magnon, un ragazzo di 11-12 annai, ed una donna di 18-21 anni risalenti a 23.000-25.000 anni fa). Dall’uomo di Cro-magnon noi Sapiens sapiens moderni sostanzialmente non differiamo granché. (Vedere immagine di un cranio di Cro-magnon in figura). Riuscirà Barbujani a stabilire anche, dall’esame dei geni deputati al colore della pelle, a stabilire se il Sapiens garganico di lontana origine africana dalla fronte alta e dal mento pronunciato, era nero o bianco? Altro giornale nel dna di noi europei c’e’ l’uomo di cromagnon.htm. È tuttavia per i ricercatori una vera sfida quella di estrarre ed analizzare un DNA così antico in parte decomposto e frammentato e di non contaminarlo. E se fosse stato già contaminato dai ricercatori attraverso le cui mani i reperti sono passati tante volte? Ma le tecniche ora esistono per sapere almeno se il campione è contaminato o non lo è, essendo state sviluppate da Svante PääboPiù recentemente una conferma della relazione tra Neanderthal e Sapiens sapiens è venuta fuori dall’esistenza di un certo aplotipo comune (la combinazione di basi B006 AATGAATTT nel cromosoma X del DNA delle due specie) in uno studio pubblicato nel luglio 2011 da Damian Labuda dell’Università di Montréal in Canada e pubblicato su Molecular Biology and Evolution. L’aplotipo è rigorosamente assente negli africani di oggi.
Delle civiltà europeo-mediorentali succedutesi da 12.000 anni a questa parte conosciamo molto, ma non tutto. Qual’era il popolo misterioso di 4.500-5.000 anni fa che ha eretto Stonehenge in Inghilterra? Chi ha costruito nell’attuale Turchia la città di Göbelki Tepe portata alla luce piuttosto recentemente dall’archeologo tedesco Klaus Schmidt, risalente ad 11.000 anni fa quando, secondo le nostre conoscenze, non erano stati ancora inventati né la ruota, né i metalli e nemmeno l’agricoltura? (Vedere un particolare in figura). In Germania, nella Sassonia-Anhalt, a Derenburg, è stato trovato un intero cimitero di una popolazione risalente al primo Neolitico (circa 8.000 anni fa), quando l’agricoltura cominciò ad essere praticata in Europa. Dagli esami effettuati sia sul DNA mitocondriale che su quello del cromosoma Y risulta che questa popolazione aveva più marcate somiglianze con popolazioni attuali turche ed irachene che con popolazioni europee, rafforzando l’ipotesi già avanzata in precedenza sull’origine mediorientale dei primi agricoltori. Lo studio è stato pubblicato su Plos Biology nel novembre 2010 dall’Università di Adelaide (Australia)  dal gruppo di ricerca diretto da Alan Cooper, in collaborazione con altri enti di ricerca tedeschi, russi ed inglesi. Rammento che l’agricoltura fu praticata per la prima volta nel vicino Oriente, come dimostrano i reperti rinvenuti in Galilea dove abitavano i Natufiani (dal nome della località Uadi-en-Natuf), una popolazione che praticava la caccia, ma aveva cominciato, tra 12000 e 10.000 anni fa, col raccogliere cereali selvatici e poi praticò la semina delle granaglie vivendo in piccolissimi villaggi. Sono sorprendenti le lame di falce fatte di materiale litico ritrovate nei siti da loro abitati e la presenza dello scheletro di un cane domestico accarezzato da quello del suo padrone. L’invenzione dell’agricoltura portò ad un radicale cambiamento delle abitudini alimentari dell’Homo sapiens moderno: mentre prima era cacciatore-raccoglitore e consumava soprattutto selvaggina, piante selvatiche ricche di fibre e frutta, ora, essendo diventato contadino-pastore, si alimentava essenzialmente di cereali, latticini, formaggi e carni grasse di allevamento. Secondo Michael P. Richards, ricercatore dell’Università di Bradford (Gran Bretagna), questo cambiamento comportò la comparsa di malattie come le carie e l’osteoporosi ed una diminuzione della statura media di almeno 10 cm. La moderna medicina ha d’altronde dimostrato che una tale dieta è anche fonte di malattie cardiache.

– Secondo Bouckaert et al [Science, Volume 337, Issue 6097 (24.08.2012)] i linguaggi indoeuropei si formarono in Anatolia (attuale Turchia) e furono diffusi in Europa, nell’Iran e nell’India da popolazioni di agricoltori 7-10mila anni fa quando appunto fu inventata l’agricoltura. In Inghilterra l’agricoltura arrivò verso il 4050 avanti Cristo in quello che adesso è il Kent. Si estese poi in 200 anni ad occidente fino alla Cheltenham dei nostri giorni, ma poi in 50 anni giunse molto a nord fino all’attuale Aberdeen. Ne risulta che in Inghilterra l’esplosione del boom dell’agricoltura accompagnato da costruzioni rassomiglia alla rivoluzione industriale del secolo XIX. Tutte le datazioni così accurate sopra indicate sono il frutto degli studi sui reperti archeologici fatti da Alex Bayliss dell’English Heritage, un ente governativo britannico, e si basano su di una tecnica statistica detta analisi bayesiana. Questa analisi combina assieme le informazioni provenienti dalla stratigrafia (che mostra se un manufatto di uno strato è più vecchio o più giovane di un altro) e dal carbonio 14, l’isotopo che, dopo la morte della pianta e la cessazione dello scambio di CO2 con l’atmosfera, si degrada progressivamente con un tempo di dimezzamento di 5570 anni. Tuttavia, secondo studi condotti dalle due ricercatrici Anna Revedin e Biancamaria Aranguren dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria (IPP), le farine per l’alimentazione dell’H. sapiens sapiens sono comparse molti millenni prima del Neolitico. Lo attestano delle macine rudimentali di 30.000 anni fa (Paleolitico superiore) con resti di materiali amidacei, la cui analisi ha fatto pensare provenissero da una pianta che cresce rigogliosa nel Mugello, la Tifa palustre. Con tale farina forse questi nostri antenati si preparavano delle gallette (l’uso del fuoco è ben più antico e risale a specie umane antecedenti).
Antenati molto più vicini a noi Europei si celano nelle mummie del Nordeuropa. Questo è un capitolo di archeologia sorprendente. Possono di un corpo essersi conservati di più la pelle e gli organi interni che lo scheletro? Sì, è possibile ed è quanto si è verificato per le mummie danesi rimaste sommerse in particolari paludi torbose per quasi 2500 anni in carenza di ossigeno ed in ambiente acido (quest’ultimo attaccò il carbonato di calcio dello scheletro). Una di queste mummie si può vedere nel museo di Silkeborg in Danimarca (mummia di Tollund, vedere in figura “Tollund man”). Purtroppo in passato molte di queste mummie sono andate perdute ed altre si sono deteriorate perché non si è intervenuti immediatamente con metodi chimici di conservazione, per cui il materiale organico in contatto con l’ossigeno ha subito distruzione. La mummia di Tollund è particolarmente ben conservata ed apparteneva ad un uomo vissuto all’incirca nel IV secolo a.C. (analisi con il C14), durante l’età del ferro in Scandinavia. Fu sepolto in una palude di torba nello Jutland in Danimarca. La Mummia è notevole per il fatto che il suo corpo, e in particolare il volto, si è così ben conservato che sembra morto solo di recente. L’acido presente nella torba, insieme alla mancanza di ossigeno sotto la superficie, hanno conservato i tessuti molli del corpo. Esami ai raggi X hanno mostrato che la testa dell’uomo è integra ed il cuore, i polmoni ed il fegato sono ben conservati. L’individuo doveva avere 40 anni ed essere alto 161 centimetri.
– Un’altra storia di peregrinazioni di popoli antichi è quella degli Etruschi e fa capo addirittura ad Erodoto, secondo il quale questo popolo si mosse dall’Asia Minore, e precisamente dalla Lidia, dopo la guerra di Troia e cioè verso il 1200 avanti CristoOggi sappiamo qualcosa di più di loro. Secondo i professori Alberto Piazza dell’Università di Torino e Guido Barbujani genetista dell’Università di Ferrara,  i primi studi sul DNA mitocondriale hanno confermato il racconto di Erodoto. Sono stati esaminati a tale scopo individui appartenenti a popolazioni abitanti in Turchia nella zona una volta indicata come Lidia e confrontati con altri individui delle località italiane di Casentino, Murlo e Volterra (dove la cultura etrusca è stata ben conservata) e sono state trovate similarità non riscontrabili in altre popolazioni italiane. Sono in corso studi sul cromosoma Y. I Tirreni (questo era il nome originario degli Etruschi) si sarebbero stabiliti inizialmente nella zona dell’isola d’Elba, dove trovarono il ferro, e di Pisa, per poi espandersi fino a Spina (odierna Comacchio). Si sarebbero anche incrociati con i Villanoviani che già abitavano quelle zone. Gianfranco Bracci ha anche organizzato un percorso turistico-culturale sulla “via del ferro” ribattezzando così la più antica via selciata d’Europa, risalente al VI-V secolo avanti Cristo.
– I Vichinghi erano grandi navigatori e commercianti scandinavi che arrivarono perfino in Italia col nome di Normanni, per cui un meridionale biondo potrebbe benissimo essere un erede diretto di questo popolo. Essi, tra le tante imprese che compirono, colonizzarono le coste della Groenlandia occidentale  intorno al 900 d. C., ma poi scomparvero totalmente dalla zona tra la metà del 1300 e l’inizio del 1400, lasciando molti reperti archeologici. Secondo Yongsong Huang della Brown University e John Anderson della Loughborough University, che hanno pubblicato uno studio sulla rivista PNAS nel maggio 2011, il motivo della loro sparizione fu un abbassamento della temperatura. A questa conclusione son giunti gli Autori tramite l’esame dei sedimenti di due laghi salati groenlandesi in una zona dove vi era stato un insediamento di Vichinghi. Trattasi di uno studio che attraverso l’esame sistematico dei sedimenti depositatisi negli ultimi 5600 anni ha permesso di stabilire la temperatura di formazione dei vari strati. Questo studio ha usato il metodo degli aptofiti (haptophytes) per stabilire le temperature dei vari strati depositatisi nel tempo ed estratti con le carote ottenute a seguito della perforazione dei sedimenti lacustri. Gli aptofiti sono delle alghe che prosperano nelle acque salate e che producono dei lipidi più o meno insaturi. Il grado di insaturazione è dipendente dalla temperatura. Il picco verso il basso trovato (peraltro di soli 4 gradi centigradi) corrispondeva ad un periodo di soli 80 anni situato intorno all’anno 1100 d. C., sufficiente a creare condizioni ambientali proibitive per la popolazione che probabilmente non poteva più allevare il bestiame per deficienza di foraggio o fare commercio con altri popoli dell’emisfero Nord perché le acque erano ghiacciate per periodi molto lunghi. La popolazione via via si assottigliò ed alla fine si estinse, ma si tratta solo di supposizioni.
– Nulla sappiamo del popolo a cui apparteneva Oetzi, la mummia di Similaun trovata in un ghiacciaio delle Alpi Venosta ed ora nel Museo Archeologico di Bolzano (vedere una ricostruzione dell’individuo nella figura 3 del  mio articolo il DNA del 2011). Essa è stata sottoposta ad analisi del DNA con la collaborazione di vari Istituti, tra cui quello di Genetica umana dell’Università di Tubinga. Lo scopo principale di questo studio è quello di vedere se esiste nella popolazione attuale qualche discendente di Oetzi (che visse intorno a 5300 anni fa nell’età del rame). In Italia lavora per il progetto la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste (S.I.S.S.A.). Dalle ultime informazioni (marzo 2012) risulta che Oetzi apparterrebbe ad un aplogruppo del Medio Oriente ormai estinto in Europa, anche se non si esclude di poterlo ancora trovare in Sardegna od in Corsica.
– Talvolta le nuove scoperte rivoluzionano completamente le nostre precedenti acquisizioni: i flauti scoperti in Germania nella caverna di Geißenklösterle fatti con ossa di uccelli e zanne di mammut hanno 42.000-43.000 anni (analisi col carbonio 14).

SEGNALA IN ERRORE OD UN’INESATTEZZA

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(NOTA 1 –aprile 2016 – Un nuovo studio pubblicato il 30 marzo 2016 sulla rivista Nature ha retrodatato l’età dell’Homo floresiensis trovato in Indonesia a 66.000 -87.000  anni fa. La precedente attribuzione (circa 18.000 anni fa) ricavata dallo strato in cui era immerso iuno dei  fossili era inesatta a causa della stratificazione complessa del terreno di deposito. Questa volta l’analisi è stata compiuta direttamente sulle ossa di braccia trovate in differenti collocazioni. Si è usato il metodo dell’uranio e del torio radioattivi presenti nel materiale. Quanto sopra rafforza sempre più  la teoria che l’Homo floresiensis è una specie a se stante di corta statura,  separata dal sapiens. Quest’ultimo pervenne infatti molto più tardi nel sudest asiatico (circa 50.000 anni fa).

(vedere seguito in i primordi della vita sulla Terra)

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i nostri antenati - prima parte




Sessantaquattromila anni sembrano tanti se li valutiamo col nostro metro di viventi a cui è impossibile superarne centoventi. Ma in realtà sono un soffio se valutati col metro del paleontologo per il quale è antico il reperto di milioni di anni fa o del geologo per il quale cominciano ad essere antichi gli strati di terreno di centinaia di milioni di anni fa. Eppure, in 64.000 anni l’uomo della specie attuale è passato dalla prima selce accuratamente scheggiata, probabilmente una freccia, all’esplorazione dei pianeti. Piccoli frammenti di pietre appuntite assieme a residui di ossa e sangue sono stati trovati infatti in Sudafrica da un gruppo di ricercatori facenti capo a Marlize Lombard dell’Università di Johannesburg nella caverna Sibudu (pubblicazione sulla rivista Antiquity, notizia fornita nel 2010 dalla BBC).

I nostri antenati più diretti si mossero dall’Africa passando  per il Medio Oriente in un’epoca non ben definita risalente attorno a 50.000 anni fa . Lo dimostrano studi genetici, fossili ed archeologici. Ma per millenni e millenni lungo le coste orientali del continente africano visse un’altra popolazione che avrebbe potuto essere a sua volta capostipite della popolazione che lasciò l’Africa per raggiungere dopo lentissime peregrinazioni il nostro continente. Tale più antica popolazione sudafricana visse alimentandosi di molluschi marini e di tuberi di piante in un periodo glaciale che si protrasse da 165.000 a 123.000 anni fa. Secondo Curtis W. Marean, professore alla School of Human Evolution and Social Change della Arizona State University, che ha studiato i fossili della caverna PP13 di Pinnacle Point sull’Oceano Indiano, questa popolazione ancestrale aveva capacità cognitive molto avanzate e riuscì a sopravvivere alle ostilità climatiche vivendo in caverne a picco sul mare. Questo popolo preistorico già 110.000 anni fa preparava attrezzi rudimentali di pietra e decorava conchiglie con l’ocra rossa. Un’altra scoperta di pittori preistorici è dovuta a Christopher Henshilwood dell‘Università di Bergen in Norvegia ed a suoi colleghi [SCIENCEVolume 334Issue 605314.10.2011, 219] che hanno ritrovato e studiato arnesi di 100.000 anni fa per il trattamento dell’ocra. La scoperta è avvenuta a Blombos in Sudafricacirca 300 km ad est di Città del Capo. La datazione è stata effettuata con la tecnica detta della luminescenza stimolata otticamente che rileva il tempo durante il quale granellini di sabbia sono rimasti nascosti alla luce solare. Distanti 16 cm dal deposito sabbioso, nello stesso strato, due conchiglie furono trovate ripiene di una miscela di ocra, ossa macinate, carbone e pezzi di roccia quarzitica. Quest’ultima apparentemente era stata usata per macinare la miscela. A che servissero le conchiglie così trattate si può solo immaginare. Forse per scopi decorativi o per proteggere la pelle dalle zanzare. Esagerando un po’, si potrebbe dire che questi nostri antichissimi antenati avevano qualche conoscenza…di chimica!. È noto infatti che l’ocra è un repellente degli insetti.
Dicevo più su che gli antenati morfologicamente moderni a noi più simili si mossero dall’Africa circa 50.000 anni fa e raggiunsero l’Europa, ma essi qui giunti sostituirono a poco a poco tutte le altre popolazioni esistenti con un incrocio o nullo o minimo con esse. Ma la datazione della migrazione è così incerta che alcuni scienziati preferiscono parlare di 50.000-95.00 anni fa. Oggi anche questo intervallo sembra destinato tuttavia a spostarsi ancora più indietro nel tempo, addirittura a 125.000 anni fa, per il fatto che il gruppo guidato da Hans-Peter Uerpmann della Eberhard Karls Universität di Tubinga ha scoperto negli emirati arabi artefatti così datati attribuibili all’Homo anatomicamente moderno che sarebbe pervenuto in Arabia attraverso lo stretto di Bab-el-Mandeb (Bab-al-Mandab) allora costellato di laghi e fiumi, verdeggiante, e percorribile con zattere rudimentali. (La pubblicazione è su Science; vedere anche l’articolo di Charles Q. Choi, Ancient Arabian Artifacts May Rewrite ‘Out of Africa’ Story, del 27.01.2011). L’interpretazione di questa scoperta è attualmente in discussione tra gli scienziati del ramo. I resti dell’uomo moderno fuori dell’Africa considerati finora più antichi erano quelli di Qafzeh risalenti a 100.000 anni fa e quelli del Monte Carmelo risalenti ad 80.000 anni fa. Anche altri nuovi ritrovamenti (area di Wadi Banut in Oman) dimostrano senza ombra di dubbio che le prime migrazioni della nostra specie fuori dall’Africa risalgono a molto prima di quanto si pensasse finora (cioè a più di 100.000 anni fa). Secondo le più recenti vedute quella dei 50.000 anni fa fuori dall’Africa è da considerarsi la terza ondata di migrazione del sapiens sapiens: ce ne sarebbero state infatti due precedenti fino a risalire a 120.000 anni. Le date probabili delle varie tappe della colonizzazione del pianeta sarebbero: arrivo in Siria/Turchia 100.000 anni fa , in Afghanistan 85.000 anni, nella Cina settentrionale 67.000, in Australia 50.000, in Spagna 41.000, nel Nordamerica 13.000. La “fioritura” dei veri moderni in Europa risale ad attorno 35.000 anni fa quando scomparvero i Neanderthal.
Secondo un’indagine, marginale tuttavia per noi europei, risalirebbe a 62.000 – 75.000 anni fa (in base all’orologio molecolare, molecular clock), la migrazione dall’Africa di un’altra popolazione di H. sapiens, quella che poi ha dato luogo agli Aborigeni australiani. Lo ha rivelato l’analisi del DNA di una ciocca di capelli vecchia di novant’anni di un aborigeno australiano data ad un etnologo e trovata in un museo da Morten Rasmussen dell’Università di Copenaghen. Egli, col suo gruppo di ricerca, ha rivelato su di un numero di Science del 2011 che nel DNA di quell’aborigeno non vi era traccia di un tratto di DNA tipico degli Europei. Anche il confronto con i Cinesi ha dimostrato l’indipendenza dell’etnia aborigena. Quel tratto era invece in comune tra Europei e Cinesi. (Poco fa abbiamo accennato all’orologio molecolare. Vediamo in cosa consiste. Esso è basato sul cambiamento in determinati segmenti del DNA di coppie di basi nucleotidiche, oppure delle relative proteine prodotte, in funzione del tempo con velocità costante ed affidabile. È con questo metodo, applicato a sequenze di amminoacidi di globine sanguigne di vari primati, che Goodman nel 1963 dimostrò che uomo, scimpanzé e gorilla sono più imparentati tra di loro che ognuno di essi con l’orangutan).
Tutte le migrazioni accennate in precedenza si riferiscono all’Homo sapiens; ma non furono le prime se ci riferiamo ad altri generi HomoUna scoperta recente ha rivelato infatti tracce di ben più antiche migrazioni appartenenti all’Homo erectus (vederne un teschio in PRESUNTA DISCENDENZA, etc. nella prima figura allegata), nel sudest asiatico (Shanti Pappu et al dello Sharma Center for Heritage Education di Tamil Nadu, India). Si tratta di rudimentali arnesi di pietra (in totale 3500, di cui 76 più avanzati) trovati nel sito indiano di Attirampakkam risalenti ad 1,5-1,1 milioni di anni fa. La datazione risulta dall’inversione del campo magnetico riscontrata nel suolo contenente i manufatti e dagli isotopi radioattivi di alcuni arnesi di quarzo. La cultura di questi Homo, che gli archeologi chiamano dei manufatti litici Acheuleani, si era già sviluppata in Africa circa 1,6 milioni di anni fa.
Segnalo a questo punto un’altra sorprendente acquisizione fatta da un team di archeologi americani, australiani, tedeschi e sudafricani: l’Homo erectus di un milione di anni fa conosceva l’uso controllato del fuoco, come risulta da ceneri e frammenti di ossa trovati nei sedimenti della caverna di Wonderwerk in Sudafrica. [BBC News – Evidence of ‘earliest fire use’.htm (03.04.2012)]
Secondo gran parte degli archeologi i fossili risalenti ad 1,8 milioni di anni fa trovati assieme a moltissimi manufatti in Georgia a Dmanisi, una località a sudovest della capitale Tbilisi, da Ferring e colleghi dell’Università del Nord Texas di Denton (Usa) sono di Homo erectus; ma, soprattutto a causa della capacità cranica inferiore (125-300 centimetri cubici in meno dei 900 dell’Erectus) il dibattito è ancora aperto per stabilire se è veritiera la teoria dell’Erectus o se l’uomo di Dmanisi è una specie a sé stante [Proceedings of the National Academy of Sciences USA (PNAS)]. La capacità cranica di questi fossili, risalenti a 1,77 milioni di anni fa, è compresa tra i 600 e i 775 centimetri cubici di volume, mentre Homo erectus, con i suoi 900 cc, ha un maggiore quoziente di encefalizzazione. Sinora la maggior parte degli studiosi era convinta che lo sviluppo di un cervello più grande avesse preceduto la migrazione dall’Africa, rendendo i nostri antenati capaci di adattarsi a nuovi ambienti. Ma le ridotte dimensioni di questi crani suggeriscono che l’aumento delle dimensioni del cervello non fu l’unica causa che rese possibile la tale migrazione, che fu piuttosto dovuta a una combinazione di fattori. “Nell’ambiente scientifico si propende a classificare i fossili di Dmanisi fra i primi Homo erectus ma, alla luce delle nuove scoperte, il dibattito è ancora aperto”, spiega Ferring. I ricercatori georgiani in particolare non sono d’accordo per l’interpretazione di Homo erectus e difatti hanno chiamato l’Homo vissuto nella loro Nazione poco meno di due milioni di anni fa Homo georgicus. In questo essere primordiale vedono infatti caratteristiche non solo dell’Erectus (asiatico), ma anche  dello Habilis, dell’Ergaster (Erectus africanus) e (forse) dell’Antecessor (per quest’ultimo vedere oltre)ed addirittura i tratti scimmieschi degli Australopithecus.  Osservare lei mmagini de L’UOMO DI DMANISI nella seconda figura qui accanto.
Più su ho accennato a due specie di Homo le cui fattezze sembrano far parte dell’Homo georgicus, cioè l’Homo ergaster e l’Homo abilis. Sembra giunto il momento di dire qualcosa su questi due nostri lontanissimi antenati. L’Homo ergaster è indicato anche come Erectus africanus, difatti secondo alcuni paleoantropologi gli Ergaster (africani) e gli Erectus (asiatici) appartengono alla stessa specie. Ergaster in greco vuol dire “artigiano”: il nome fu dato per il fatto che questo Homo lavorava abbastanza bene la pietra iniziando così la cosiddetta cultura dei manufatti litici Acheuleani (il  termine deriva dal villaggio di Saint-Acheul, presso AmiensFrancia, dove furono rinvenute pietre scheggiate a forma di mandorle lavorate su due lati simmetricamente. Tra i più recenti ritrovamenti, ricordo a questo proposito un cranio di Ergaster africano trovato nel 1995 in Dancalia (Africa Orientale), appartenuto ad una femmina battezzata dai paleoantropologi La Signora di Buya ed altri frammenti dello stesso Homo successivamente ritrovati nella stessa zona.
Parliamo ora dell’Homo abilis. Esso aveva le braccia più lunghe dell’Erectus, somigliando in questo di più agli Australopitechi, ma un viso meno sporgente rispetto a questi ultimi e piuttosto simile a quello dell’Erectus, capacità cranica metà dell’uomo attuale, capacità di fare oggetti litici primitivi. Secondo alcuni potrebbe essere stato l’antenato dell’Erectus africano (Ergaster). Ma le due specie convissero, come rivelato da nuovi ritrovamenti, per cui potrebbero aver avuto un comune antenato. Anzi, sul lato est del lago Rudolf (oggi Turkana) convisse nel periodo tra 1,8 e 2 milioni di anni fa ancora una terza specie, l’Homo rudolfensis, che, dopo una nuova scoperta dell’agosto 2012, può essere distinto più sicuramente dall’Habilis (con cui alcuni antropologi avrebbero voluto identificarlo). [New Fossils Put Face on Mysterious Human Ancestor – ScienceNOW.htm di Ann Gibbons08.08.2012] .
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